LA FAME

Victoria Herranz
8 min readAug 24, 2021

La Sicilia dell’altra condizione

“Non c’è uomo meno fortunato di chi viene dimenticato dalle avversità e non ha la possibilità di mettersi alla prova.”

Seneca

Verso metà febbraio del 2020 tornai in Sicilia dopo una breve visita in Spagna. Non fu niente di previsto. Ho l’abitudine (l’avevo) di guardare asiduamente i voli e dire “un giorno ne prenderò uno senza pensarci su, e me ne andrò”, ma non lo feci mai. Fino a quel giorno. Presi un biglietto di andata e ritorno e andai a casa quasi senza avvisare. Quando arrivai, raccontai alla mia famiglia, tra le risate, quanto erano esagerati gli italiani, che mi avevano controllato la temperatura prima dell’imbarco per ciò che stava accadendo in Cina, in Cina! manco c’entrasse con loro! L’aneddoto finì là perché fu soltanto quello, un’aneddoto, dato che in Spagna non mi controllarono mai la temperatura (spero e desidero non soltanto che abbiano cambiato i protocolli, che so che è stato fatto, ma che vengano rispettati). I pochi giorni che rimasi a casa li vissi alla mediterranea, cioè, in famiglia, mangiando, dormendo e incontrando degli amici. Quando ritornai fui accolta nell’aeroporto di Palermo ancora con un controllo di temperatura e il classico “Benvenuta in Italia”, e poi la mia anche classica risposta “Grazie” accompagnata di un sorriso più grande del solito al stupirmi della ammirevole coerenza sanitaria di fronte a una minaccia così lontana… Da allora resta il mio sorriso insieme a una risatina tragicomica, frutto di almeno un anno senza uscire da Palermo, di vita mediterranea di mangiare e dormire ma senza i miei. Tranquilli, niente nostalgia, è soltanto tradizione.

Qualche giorno dopo il mio rientro, arrivò la notizia di una possibile infezione in un hotel palermitano. Dalla Spagna, dove fino a quella mattina il virus era qualcosa di esotico, mi chiesero di andare a fare un servizio. Andai, lo feci ma non si pubblicò mai perche saltarono le alarme a Barcellona. La mattina il virus era qualcosa di esotico, la sera una minaccia reale.

L’8 marzo, in un ambiente rarefatto, con pioggia, seppi che l’Associazione Comunità Cinese di Palermo della via Lincoln stava distribuendo mascherine gratuitamente. Mi sembrò che, se non era notizia, quanto meno era qualcosa di eccezionale, e quindi andai a fare qualche scatto e chiacchierare con i commercianti cinesi. Lì ebbi il piacere di conoscere i nostri ormai grandi e cari amici: la mascherina e il gel idroalcolico.

Quando finì la distribuzione mi dissero che loro stavano chiudendo e che non sapevano quando avrebbero riaperto. Ascoltai il lamento della saracinesca colpendo il pavimento al chiudersi. Due giorni dopo, l’Italia decretava il lockdown.

Nelle settimane posteriori all’inizio del lockdown, Palermo incominciò a soffrire tutta una serie di conseguenze collaterali della pandemia. In una terra dannata economicamente, con un alto tasso di disoccupazione, esodo e immigrazione, l’isolamento stava mandando fuori controllo la già delicata situazione di tante famiglie che si incontrarono faccia a faccia con un nemico sempre in agguato: la fame.

Organizzazioni come il gruppo G.E.S., appartenente al A.N.A.S., raccolsero circa 5.000€ di donazioni fatte da privati che, assieme a quelle fatte dalle aziende di distribuzione di prodotti alimentari, contribuirono al sostegno alimentare di oltre 280 famiglie durante il mese di aprile. Come l’A.N.A.S., diverse organizzazioni governative, no-profit e movimenti sociali continuarono la loro opera di assistenza alle famiglie in situazione di emergenza radicata al di là del COVID-19.

Si stima che nel corso dell’emergenza coronavirus sono aumentate del 20%-30% le richieste di aiuto alimentare in tutto il paese, registrandosi le maggiori criticità nel Mezzogiorno, dove sono aumentati di un 11% in Sicilia. La chiusura generale non soltanto stava compromettendo il tessuto produttivo, già gravemente compromesso. Anche stava alterando le vite di quelli che si affannavano per sopravvivere senza bisogno di ulteriori incentivi. Secondo i dati della Cgil, soltanto nella provincia di Palermo un lavoratore su quattro è in nero.

Navigando tra i vari rapporti, siano questi nazionali che internazionali, sul rischio di povertà ed esclusione in Italia, e in particolare in Sicilia, trovai montagne di grafici indecifrabili, tra cui cui spiccava la percentuale di popolazione disoccupata, e mi stupii vedendo che questa veniva divisa tra “pensionati”, “in cerca di lavoro” e un enigmatico “in un’altra condizione”. Mi chiedo perché la diplomazia linguistica si ostina a nascondere con parole magniloquenti ciò che è sempre stato lavorare in nero, cioè, senza garanzie, senza assicurazioni, invisibile manodopera che sostiene tante famiglie, ancora di più quando è la situazione in cui si trova praticamente la metà della popolazione definita come disoccupata. Come si forgia una patria di invisibili?

Le notizie si susseguivano senza sosta in tutto il mondo. Era impossibile stare al passo e inoltre non sembrava più di avere senso. Era come una scommessa per decidere chi dava di più, quindi mi chiesi se non sarebbe stato meglio fare un passo indietro per vedere la situazione in prospettiva, in 35mm. Un piano di contesto, un piano antropologico.

I popoli del Mediterraneo si mantengono ancora, in misura maggiore o minore, lontani dell’individualismo esacerbato promulgato dalle potenze di un Occidente di cui, ironicamente, fanno parte. Forse per questo di solito non vengono considerate a capo dei ranking di “sviluppo” da loro promossi. Ogni singolo membro delle famiglie palermitane viaggia sulla stessa barca, alla quale si aggiungono i migranti venuti innanzitutto dall’Africa e dall’Asia, facendo ancora più grande e accogliente la barca siciliana. Ma essere uniti non evita le tempeste, soprattutto nell’alto mare di una pandemia.

In base al principio del Funzionalismo, la totalità degli aspetti relativi a una cultura si correlano tra di loro relazionandosi a vicenda, quindi l’alterazione di una parte incide sul tutto. Speculando su questa idea nella società siciliana, nella sua variante palermitana durante la pandemia, si potrebbe affermare che il disallineamento generato dalla sospensione delle attività produttive formali e informali hanno scosso l’intero tessuto sociale. La società palermitana è storicamente radicata in una solida base familiare, essendo ogni membro del suo nucleo al contempo protettore ed anche protetto. Per quella che sembra di essere una parte importante di questa società, costretta in una situazione precaria bassata su un’economia informale, vale a dire la cui fonte di guadagno nasce dei lavori senza contratti, occasionali, oppure delle attività più o meno illecite, chiudersi a casa non è un’opzione. Questo spiega in parte la lunghezza delle file per ricevere gli aiuti.

A questo punto sarebbe opportuno pure abbandonare il punto di vista antropologico perché ci servirebbe un’accurata raccolta di materiali etnografici, dando passo a tre inconvenienti. Innanzitutto, la quantità di tempo necessario; inoltre, anche se superfluo ma non meno importante, che il risultato di un’inchiesta del genere, per quanto personalmente mi possa affascinare, farebbe annoiare, e non senza ragione, alla maggior parte dei lettori; e infine, perché si parla di fame, e la fame non si intende di teorie. La fame si ha, ora. E poi né io sono Malinowski né la Sicilia sono le isole Trobriand.

Così dai dati e dalla loro interpretazione conviene passare all’astrazione e chiedersi cos’è la fame. Logicamente qualsiasi domanda che parta da “cos’è” qualcosa ci porta alla filosofia, e la Sicilia di filosofia se ne intende, innanzitutto di Stoicismo. Perché se campare in Sicilia non è stoicismo soltanto Dio sa cosa sia. Ma siccome sono di mente dispersa me ne ricordo de I Malavoglia e penso che tutte le persone davanti me sono diventate quella famiglia, tutte hanno perso la loro barca, tutte sperano di riprenderla senza sapere né come né quando, disgrazia dopo disgrazia. La barca, sempre la barca siciliana…

Sono fiera, ma anche triste, di scoprire che sia per la Real Academia de la Lengua Española (RAE) che per l’Accademia della Crusca, la fame viene definita come “carestia, grande miseria”. A quanto pare su entrambi le rive del Mediterraneo condividiamo opinioni sullo stile di vita e le grandi tragedie, così, chiariti i termini, torniamo sulla barca…

Durante le consegne ascoltai diverse volte parlare di bambini dentro il nucleo familiare. Chissà perché non gli avevo mai prestato molta attenzione, anche quando ogni tanto qualche bambino si faceva vedere svolazzando nelle file. Mi piaceva vederli, mi facevano sorridere mettendo colore a una situazione che pur essendo drammatica era pure diventata protocollare: “Cognome, numero di componenti, presenza o meno di bambini, neonati?”, tutto quanto mi sembrava normale… normale… fin quando dando un’occhiata tra le scatole della spesa notai del latte in polvere. Latte di proseguimento, latte per i bimbi. Nelle infinite liste di famiglie bisognose c’erano dei bimbi. Nessun Seneca parlò mai di latte per i bimbi. Quindi né l’informazione giornalistica, né le teorie antropologiche né le divagazioni della filosofia servono per capire la “carestia e grande miseria”. Magari siamo arrivati finalmente all’etica… vogliamo parlare di etica?

L’Italia si trova tra le potenze mondiali e, invece, in caso di pandemia, lo Stato italiano non può garantire che il latte arriva a tutti i bimbi che vivono nel suo territorio. Ma prima che qualcuno si offenda, gonfio d’amore per la madre patria, voglio chiarire qualcosa: so benissimo che a nessuno piace che la sua terra venga giudicata da un, o una, straniera. A ognuno il suo: io il mio, tu il tuo. Per ciò ci tengo a dire che questo in Spagna accade, negli USA accade, nel paese più sperduto dell’Africa profonda accade… e così sicuramente in ogni singolo paese, se non uguale almeno simile. No c’è bisogno di essere dotto, si sa. Che i moderni stati sociali hanno le sue fratture si ammette eppure si capisce, ma non garantire il sostegno fondamentale ai bambini perlomeno ci dovrebbe far pensare. E tra pensare e pensarci su, fare, remare, perché una barca alla deriva anela sempre di trovare porto.

Di solito la gente tende a fare dei grandi racconti sulle sue scelte vitali. Io invece sono assai semplice, al punto che quando ero piccola mi piaceva il rumore che faceva la macchina fotografica mentre scattava e chiedere il perché di questo rumore (e di tutto). Per ciò, eccomi qua, quindi non datemi retta, io soltanto volevo sentire quel rumore…

©Victoria Herranz

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Victoria Herranz

Freelance Reporter. Writer, Photo and Videojournalist. Storyteller Available for assignments worldwide http://www.victoriaherranz.com